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_ Critica
 

di Mario De Micheli

di Leonardo Sciascia
 

 

 
 
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I personaggi di una periferica e provinciale società opulenta

di Mario De Micheli

 

Ecco un altro artista che risale dal Sud sino a Milano. Ancora qualche settimana fa, non lo conoscevo.

Si chiama Calascibetta. Ora ho visto le sue opere e lo presento con la convinzione che si tratta di un pittore dotato di una sua spiccata personalità, già padrone di un proprio singolare linguaggio e già capace di formulare plasticamente una visione originale della realtà con cui è costretto a fare i conti.

Calascibetta è un artista satirico, quindi un artista che scende nel dettaglio, che rappresenta con puntiglio scene e situazioni, che racconta e descrive. La satira non può essere né generica né approssimativa. Ha bisogno di acutezza, di penetrazione critica, di pungenti definizioni.

La tecnica del grottesco, l'accentuazione dei caratteri somatici come traslato delle deformazioni e delle mostruosità interiori, l'amplificazione dei gesti nella falsa teatralità degli ambienti: tutto ciò fa parte del suo metodo, di cui egli si serve egregiamente, con finezza grafica e cromatica, senza mai scivolare nella sbracatura o nella perorazione moralistica.

Ogni opera di Calascibetta è sempre un convegno di personaggi, quando addirittura non ne brulichi. Sono i personaggi di una periferica e provinciale “società opulenta”, i protagonisti dei “nuovi ceti emergenti”, gli speculatori, i parassiti, i mangioni, i servi in divisa del potere: il giudice intrallazzato col mafioso, il prete che assolve da ogni peccato e il generale che dà lustro e garanzie patriottiche alle feste e ai banchetti, dove trionfa una confusa presenza carnale di dame, cortigiane e baldracche, sfarzosamente agghindate per la “rappresentazione”.

Un simile spettacolo non è certo nuovissimo: sin dai tempi di Hogarth e di Daumier fa parte del mondo dell' arte. Ciò significa che una tale realtà è dura a morire, si rinnova, e per altre vie si ripresenta sulla scena anche oggi. Il tempo della satira, con occhio e segno diversi, è dunque tutt'altro che finito. Ecco: Calascibetta l'ha capito e in questo senso si muove.

E' il suo merito, insieme con un talento di cui mi par dargli atto sin da questo suo primo incontro milanese.

 

 

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Un carnevale dissennato sull'orlo della catastrofe

di Mario De Micheli

Ormai, da qualche anno, i quotidiani e i settimanali sono tornati al disegno satirico. La vignetta, la <striscia >, il fumetto hanno preso un crescente rilievo.Si fanno anche mostre, si bandiscono premi, si pubblicano libri. Che siano ricominciati i tempi di Hogarth, Daumier, Steilen, Scalarini? I segni potrebbero essere senz' altro confortanti, assai meno persuasivi però sono i risultati, che, da una pagina all'altra, quotidianamente ci cadono sotto gli occhi.

Troppi testoni su corpi rachitici, che ci riportano addirittura alla caricatura risorgimentale; troppe sequenze meccanicamente ripetitive, dove ha valore soprattutto la battuta; troppe immagini generiche, prive di energia grafica, di carattere stilistico.L'aspirazione alla satira si è diffusa, ma i disegnatori satirici di valore sono assai scarsi.

Ecco: Calascibetta, al contrario, è un disegnatore satirico di razza, che possiede tutte le qualità plastiche di un artista autentico, che sa raccontare, intuire e rappresentare i suoi temi con sicura efficacia, che fa arte, facendo caricatura. L'esempio che qui ci propone né è una prova lampante. < Comiso Park >, la tela e i disegni che l'accompagnano, non possono lasciar dubbi in proposito. Il soggetto è di un' attualità bruciante: la costruzione della base missilistica nel piccolo centro siciliano. Un fatto preoccupante, che ha suscitato e suscita l'opposizione di quanti sentono il problema della pace come il cardine primario della loro coscienza e della loro azione.

E' certo così per Calascibetta.

La scintillante ironia di questa sua rutilante giostra impiantata in mezzo ai campi di grano, nel cuore antico di un' attività contadina, di cui protervamente non s'intende rispettare il giudizio, è folta d'invenzioni, di personaggi, di pittoresca sguaiataggine o di fascinose volgarità: tecnologia e circo equestre, fantascienza e baraccone, dove gangster, teppisti, buffoni, star e uomini d'affari, girano vorticosamente intorno, su aerei vistosamente decorati, in una sorta di allegra e farsesca <Apocalypse now >. Ogni dettaglio è acuto, preciso carico di riferimenti e il gusto del grottesco sempre trattenuto da un sicuro rigore formale.Di questo rigore, unito a una immaginazione ricca di risorse, offrono un'immediata e circostanziata visione anche i disegni. Calascibetta non sbaglia un segno, definisce sempre con esattezza pungente ogni motivo, ogni particolare. Il foglio non ha mai spazi inerti e nulla vi è secondario.

Ogni dettaglio fa parte del tutto e converge alla definizione generale dell'immagine.

Questo ciclo di < Comiso Park > appare così come un' allarmante <favola >, che qualcuno vorrebbe raccontarci, senza però scoprirci il finale: una favola atrocemente iridescente, una follia sulla soglia del disastro, un carnevale dissennato sull'orlo della catastrofe.

Chi può credere a simile farsa, a simili protagonisti?

 

 

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Mondo ingordo e malandrino

di Giorgio Soavi

Calascibetta non è un porticciolo deserto ai piedi di una montagna abbandonata, o una caletta di finissima sabbia nella quale rotolarsi in queste giornate interminabili della nostra estate, ma il nome di un pittore siciliano che espone a Milano ed è particolarmente bravo a disegnare. Un suo gioiello sta incorniciato in una grassoccia cornice d'oro e raffigura tre mostri: un coccodrillo non sottomesso al guinzaglio di una donnona che gli passeggia sulla schiena mentre un folletto danza nei paraggi della sua bocca spalancata; tutti e tre sono ospiti di quel salone degli specchi al primo piano di villa Palagonia dove sono stato, anni fa, per curiosare in quale luogo ameno avesse trascorso la propria bambinaggine il piccolo Guttuso, nel suo paese natale che è Bagheria. Perché Guttuso mi diceva: io vado a giocare là. Villa Palagonia è circondata da mostri di pietra sistemati in cima al muro di cinta e quei mostri mi consolavano delle offese fatte alla meravigliosa villa intorno alla quale avevano innalzato e cementato piccoli condomini assolutamente orridi. E per questo la città di Bagheria sia condannata al rogo. Ma il visitatore si abbandonava alle suggestioni di quella villa disabitata, soprattutto in quel salone così ben descritto dal nostro Calascibetta e nel quale gli specchi, rotti o deformanti, danno l'illusione purissima di essere finalmente diventati, noi stessi, mostruosi e deformi, noi che non credevamo a tanto. Calascibetta, siciliano di Palermo, vive a Milano, costruisce con le proprie matite e pennelli esseri umani o animali perfettamente zoologici, e decisi a spaventarci. Bene: ci è perfettamente riuscito e la sua fauna mi ricorda, oltre alle fiabe della tremendissima letteratura di mostriciattoli offerti all'infanzia, anche quel filone di cinema americano che allatta e prolifera delle signore che sono delle gran vacche e passano la vita allargate a letto, tra scatole di cioccolatini e cagnolini che si accoppiano nella imitazione dissoluta della loro padrona, mentre una serie di falliti -

di uomini falliti - stanno al loro servizio, come è avvenuto nel mirabile, sordido film”Atlantic City”con Burt Lancaster e Susan Sarandon, protagonisti, con una grassona di quel genere ingordo, dei più squisiti relitti di questa società alla deriva.

I relitti di Calascibetta mordono, inghiottono, godono e si arrampicano sulle donne e intanto si preparano ad un atto unico, quello delle effusioni amorose, ma perversi al punto da spaventare chi guarda. Questo è il prologo. Adesso passiamo ai fatti. Nell'attuale mostra viene proposto il grande, bellissimo disegno della villa Palagonia, attorniato da altri disegni, tempere e un grande quadro, tutti quanti affamati protagonisti di un titolo che dice trattasi di Amore. Di questo spettacolo noi amiamo quasi perdutamente il disegno della signora Leda avvinta al proprio personale cigno . Quel quadro ci attrae in modo particolare per la cura con la quale l'artista ha circondato, con una specie di mantello imperiale, fatto di penne di quel mitico e invadente cigno, la leggenda che gli impone di appiccicarsi voluttuosamente a una donna per compiacerla, Il pittore descrive come sono andate le cose tra quei due e la femmina, che indossa occhiali a specchio, ci guarda dal suo mondo ingordo e malandrino. Leda e il cigno, campioni di quel genere voluttuoso e fortemente ironico caratteristico dell'artista siciliano, perfezionista e narratore di eventi particolarmente crudeli, puntiglioso nel riferirci la qualità e i dettagli del furore che accompagna gli atti amorosi dei suoi campioni, uno più forte o più sconcio dell'altro, forse mai sazi, Una mostra che è anche un match forse eccessivo, debordante, ma assolutamente leale nell'ammettere che l'umanità non è tutta levigata come la bellezza di Gregory Peck o della Venere di Milo ma, per l'appunto, anche infame e sgradevole, anche se i nostri occhi e il nostro palato fingono di non vedere tra quali potentissimi mostri riusciamo a convivere

 

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Ritorno dall'aldilà

di Lucio Cabutti

Forse, certi onirici personaggi di Momò così ammalianti e languidi, spossati, troverebbero nell' “Eroticus “plutarchiano la loro più autentica bibbia pulp. Fatto sta che a volte anche loro hanno le ali, proprio come gli amanti veraci teorizzati da quel sommo sacerdote dell'oracolo di Delfi, Plutarco, che avvalorava con il servizio al santuario di Apollo l'appassionata vocazione di scrittore e filosofo tradizionale, Sono le ali, si capisce, meccaniche di aerei pop da cartone animato e da cartolina postale, ornate ed ornamentali, come si addiceva a individui beneducati e ben datati del secolo scorso, Dal cuore struggente della prima metà del Novecento, infatti, ( come suggeriscono le tipologie dei loro veicoli d?epoca autenticati da Momò ), questi signori intorpiditi e stravolti fuggivano un tempo in volo verso lidi remoti e senza tempo. Decollati con destrezza oltre le torri di controllo delle fantasticherie e delle chimere, puntavano direttamente più in alto sull'immaginario e sul mito, abbandonandosi alla potenza a doppio taglio dell'avventura ineffabile evocativa. E nella loro assenza di gravità si fermavano a mezz'aria trasformando la ricognizione a distanza in interazione immaginale carica di prodigio e disincanto.

Così i loro arcaici vettori alati da giostra per adulti galleggiano ancora adesso leggeri e tondeggianti nelle opere di Momò. A elica oppure a reazione, adorni di stelle, rose dei venti, grintosi musi digrignanti, e corredati di bombe ma anche di passeggeri che dirottavano le missioni dei piloti dall'eroismo all'erotismo, questi epocali velivoli spiccano ora in sapidi cieli circondati, come da un passe-partout a frottage, dallo stesso pattern decorativo delle loro lustre fusoliere. E sorge il sospetto che nel 2001 la rotta top-secret di tali arnesi volanti, sul filo a rischio della nostalgia, possa inoltre condurli qualche volta imprevedibilmente più lontano. In questa epoca satura di cyberspazio nel discount e di discount nel ciyberspazio, può darsi insomma che anche i loro piloti automatici lucidamente programmati da Momò trasportino i viaggiatori ignari verso la realtà virtuale delle soluzioni immaginarie. Oppure che riescano a condurli, in una sommersione ancora più inconscia ed estrema, verso quell' ”altrove” nostalgico di un'esistenza amniotica totale, al di là di ogni vivere e cessare di vivere immaginari, proclamato da Andrè Breton nel “Segreto dell'arte magica surrealista”. “Il vero amante infatti”, secondo il vangelo platoneggiante di Plutarco,” quando è stato nell'aldilà e ha interagito con la bellezza, giustamente ha le ali e celebra i misteri”.

 

Senza dimenticare, si potrebbe aggiungere, che in greco e latino l'amnion (diventato poi nell'italiano anatomico del Seicento, attraverso connessioni metaforiche di gravidanza e di uccisione rituale tremendamente barocche, l'involucro del liquido in cui cresce l'embrione) era in origine il vaso di raccolta del sangue degli animali sacrificati. Sui loro ordigni colti al volo traballanti come catorci ma insieme confortevoli, pare, almeno a giudicare dagli acrobatici eventi performativi inscenati senza rischi di cadute, gli interpreti di Momò celebrano di certo misteri gaudiosi, anche se vagamente crudeli, e un poco inquietanti e terribili alla maniera antica di tutti i sacri misteri. E come attori scafati indossano gli abiti di scena o se ne liberano all'occorrenza, quando lo desideri il ruolo, per raccontare storie irridenti di ordinaria estenuazione, bramosia e disianza.

I loro costumi risultano ben di rado stirati impeccabilmente con il ferro a vapore, e rimandano piuttosto a memorie epocali anteriori ai già remoti Anni Trenta degli aerei disneyani o agli Anni Cinquanta dei turbo-reattori. La molle plasticità della raffigurazione dei tessuti attinge inoltre ai sensi più antichi del ritratto e della scena di genere imperniata su persone, dove l'abito faceva effettivamente il monaco come una seconda pelle artificiale e socialmente simbolica del personaggio. E anche quando il look degli abiti disegnati o dipinti da Momò appartiene all'iconografia della moda contempotanea, il gioco delle pieghe, degli arricciamenti e delle plissettature dilata l'attenzione oltre l'espressionismo reale dell'attualità.

Ne proietta così il sapore dell'evocazione verso lo spirito di altri Secoli meglio esercitati, per formalizzazione dei ruoli, a vedere nella figura umana una potenziale latente di traslazioni allegoriche e di icastici problemi. Mentre il Web si stava specificando, così, come un nuovo mezzo di comunicare ma anche di rielaborazione informazioni (cultura, “filosofia”e creatività di Rete comprese), un affine mutamento di costume investiva anche le forme più tradizionali e i modelli più classici dell'arte, All'interno di questa trasformazione, la poetica di Momò ama e privilegia le ali tutt'altro che pulp e i misteri plutarchiani dei confronti e delle interazioni, il gusto del registro ironico e della parodia melodrammatica, la rivalsa dell'umorismo e le relative prese di distanze.

Già un devoto di amore e di morte come Jacopo Ortis aveva guardato alle popolarissime “Vite parallele” dello scrittore greco. “Col divino Plutarco potrò consolarmi de' delitti e delle sciagure dell'umanità”, scriveva infatti il personaggio di Ugo Foscolo nelle sue “Ulime lettere” a un altro personaggio non meno personalmente foscoliano, Lorenzo Alderani.

“Temo per altro che spogliandoli della magnificenza storica e della riverenza per l'antichità, non avrò assai da lodarmi né degli antichi, né de' moderni, né di me stesso- umana razza”, aggiungeva però subito Jacopo, riferendosi agli “illustri esponenti dell'umano genere” che Plutarco aveva fatto interagire tra loro nelle “Vite” ispirate all'etica civile e dell'amore della libertà.

Anche le figure disegnate o dipinte dal pittore, del resto sospese fra il torpore e l'eros, attraversano la magnificenza storica dell'arte e la riverenza per l'antichità degli stili. E, proprio come per Jacopo Ortis e Lorenzo Alderani, pseudonimi di Ugo Foscolo in chiave di fiction, per Momò pseudonimo di Antonio Calascibetta la “umana razza” dei suoi personaggi e della Terra, sfrondata dagli elevati paragoni e dai dovuti rispetti, comporta insieme la consolazione e la delusione. Nel Secolo scorso questo genere di fantasticato umorismo ricorrente nelle opere di Momò. Ereditato per alcuni aspetti dai secoli precedenti, aveva riscosso consensi e stima per la sua capacità di abbinare il gusto del divertimento alla incidenza dell'analisi sociale.

E da queste orme era disceso, inoltre, uno specifico genere di produzione e di consumo apprezzato appunto per tale messaggio binario in cui confluivano, ininterrottamente, l'icona di spirito e lo spirito critico, il garbo della vignetta e il sale della provocazione beffarda, l'aneddoto per immagini e la riflessione di costume.

Come nelle allusioni dell'artista alla iconologia liturgica della corrida, l'estetico gioco al massacro si sospende infine in una vagheggiante visione fantasmatica, e diventa insieme levitante abolizione del peso e del personaggio. Nel 2001 che segna l'ingresso in un nuovo Secolo, Anno e Millennio, il pittore e grafico punta su Momò come firma, nome o pseudonimo d'arte, che sostituisce il suo nome e cognome anagrafici sulle opere realizzate. Se Alderani e Ortis costituivano per Foscolo un modo di interagire con la propria scrittura per interposti nomi di personaggi, si può dunque interpretare la scelta di Antonio Calascibetta nei termini di una tendenza a immedesimarsi di più nelle figure e nelle situazioni messe in scena, accompagnate però da una progressiva consapevolezza del loro carattere immaginale di finzioni nei confronti della sua stessa realtà individuale.

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De l'amour

di Fabrizio Dentice

Di Antonio Calascibetta fino ad oggi è piaciuto rilevare soprattutto il genio satirico (che certo non gli manca); e in quest'ottica è stato facile riferirlo ai paradigmi: Hogarth, Daumier, Grosz, Dix…Io invece vorrei guardarlo da un altro punto di vista; anche perché nella casella di artista “satirico” Calascibetta sta stretto come un falcone in un nido di merlo. Lo dico non solo per la statura, ma per la fierezza e la grinta. Quest'uomo non fa niente per piacere ad un pubblico melenso e distratto, che non sappia riconoscerlo a prima vista per quel che dice e vale. Non fa niente per vendere più facilmente a chi vuole che un quadro in casa sia come un mazzo di gladioli o una porcellana di Copenaghen: “carino” e neppure al mercante che castra i puledri per portarli alla fiera.

Calascibetta fa tranquillamente quel che gli pare, o meglio quello che gli detta il suo personalissimo e grande talento, e ne accoglie con serena certezza di sé gli inconvenienti e le gioie.

Leonardo Sciascia, che lo apprezza al punto da volerlo illustratore, presentandolo a Catania nel '79, indicava che Calascibetta, avendo delle cose da dire in pittura”, aveva cercato prima il mestiere per dirle. “Mestiere”, rincalzava, “ormai tanto connaturato nelle cose da dire che – per esempio – l'impiego dei colori acrili gli è diventato mezzo d'espressione. I colori acrilici sono una comodità, generalmente; nel suo caso sono espressivi; tutt'uno con il mondo che rappresenta”.

Vediamo allora questo mondo. Sciascia per primo poi, Mario De Micheli ed altri valenti critici che hanno scritto nei quindici anni intercossi dalla prima mostra, commentando a caldo restavano colpiti dalle sue valenze sociali e ambientali. Sciascia, da moralista qual'era in primo luogo, vi riconobbe “il mondo della corruzione democristiana”. Tema bastante, di per sé, a un'epopea. Dopo di lui se ne è osservata, più neutramente, la “sicilianità”. Tra virgolette(messe da me)perché è “sicilianità” speciale. Un amalgama – scevro d'ogni folclore e luogo comune – di specifici comportamenti culturali e antropologici, impastato dall'artista con complesso sentimento di partecipazione e distacco. Ironia strappa pelle, riconoscimento delle radici, rabbia e sorriso, tenerezza e risentimento.

Questa lettura è incoraggiata dai temi e titoli di mostre riferiti al “luogo”come più non si potrebbe. La piazza “delle Vergogne” di Palermo convertita in pazzesco saturnale di marmi e carne; le follie del “Comiso- Park”, carosello di libido scatenate dall'istallazione – con fall-out di dollari – dei missili americani nell'angolo più derelitto della Sicilia. E poi.

Rivedendo gli stessi dipinti a freddo, quando la contigenza è diventata memoria storica; e al lume delle opere esposte ora da Antonia Jannone, che trattano “…dell'amore (ma non secondo Stendal), si percepiscono meglio altri valori – per me dominanti – che fanno di Calascibetta in primo luogo un pittore “dell'immaginario”, razza ben definita da Giuliano Briganti. E' un'immaginazione che parte da vicino, traendo spunti da modi, tipi, caratteri, comportamenti e tic catturati dall'immediata e quasi quotidiana esperienza. Ma che subito si dilata, dilaga e vola in una dimensione – per forme e contenuti – fantastica, a volte delirante, sempre stralunata e sorprendente.

Calascibetta dice, e bisogna credergli, che quando prende in mano la matita o il pennello per inseguire un idea non sa bene quello che fa. Le mani vanno, sono loro che portano. Sembrerebbe una ricetta surrealista. Ma non è una ricetta, e il suo dipingere surrealista non è certo. Io lo vedo come un travaso puro e semplice – lubrificato da quel mestiere proletario e fatto natura che impressionò Sciascia fin dagli esordi – di un'immaginazione in moto perpetuo, che si sbriglia senza mai perdere il filo nei più straordinari percorsi.

Guardo la “Leda” per esempio, e resto prima ancora che deliziato, esterrefatto. Da dove gli è arrivata questa portentosa visione? Quest'estasi golosa e casalinga, concentrata sotto gli occhiali tondi da miope e conclamata dal possessivo raccogliersi delle gambone, in primo piano, intorno al piacere; con quello zoccolo proiettato nell'occhio di chi guarda? E quel polverio di luce che è il dio – cigno esausto, gettato come un tappeto o uno scialle a coprire le strabordanti nudità della tindaride penetrata? Piuma per piuma: una nuvola che è forse è tessuto invece di pelle di serpente, o di scaglie d'argenti chiari e bruniti… non sai se miracolo di natura o capolavoro di un mago orefice.

Sei trascinato altre volte dall'accumulazione. E' il caso di “Acque, gialle a Cefala Diana”, la maggior tela in mostra: ludico tripudio di coppie e singoli nelle piscine dell'abbandonato bagnoarabo – ogni figura un ritratto – avvolto e amalgamato in una luce sulfurea. Nei disegni e negli acrili piccoli, invece, il racconto è univoco, concentrato con ilare violenza (di cui la specie del colore è il fattore portante) su una situazione a due. Una delle tele, con doppia ragione, s'intitola “Raptus”. Ma sono tutte in verità dei “rapimenti” dell'anima e dei sensi: deliri, brame esplosione dell'eros; qualche volta anche abbandoni (sempre rapiti) alla soavità di un istante, al nettare del sentimento.

Ma anche intorno ai nuclei di rappresentazione più compatti dell'immaginazione dell'artista preme ribolle morde e gioca, inserendo varianti e arricchimenti che sono personaggi in formato minore o seminascosti, da cogliere a secondo sguardo, o magari le figure decollanti la spalliera di un letto, chiamate in vita dal momento di vita trionfante che sogguardano. L'amore, ci dice, Calascibetta è questo. Non solo questo – come sanno poco persone fortunate – ma anche questo. E se non è proprio “questo”, certamente è così.

 

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Sulla giostra di Cosimo Park

di Gesualdo Bufalino

Sciascia mi parlò di un pittore siciliano maestro della matita e del pennello accanitamente dedito ad una sua ricerca di qualità artistica assoluta, fottendosene (così si espresse) del successo, malattia endemica tipica della categoria dei pittori che è quella di sentirsi ed ancora più mostrarsi arrivati… nel sarcofago, finalmente!

Un pomeriggio Calascibetta venne a trovarmi a casa, allampanato ed energico; mi apparve come un sottilissimo filo d'acciaio conficcato a terra, sospeso nell'aria e sbattuto dal vento.

Con compiacimento di satiro greco mi mostrò la fantasmagoria orgiastica di giostre in movimento, gravate da una sessuata umanità sessuofoba e raccapricciante, sfacciata e tracotante, dilettuosamente lussuriosa e delittuosamente impegnata nelle danze della vita o della morte che l'America viene a giocare a casa mia: Comiso.

Ed io non me ne ero accorto?

 

 

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Il Labirinto di Momò Calascibetta

di Vincenzo Consolo

Ai regni opulenti, ai re soddisfatti, ai poteri sicuri e iattanti, ai sontuosi palazzi, alle giare di grano e di miele, alle piazze di giochi e di danze, di salti su groppe, fra punta di corna mortali, alle ridondanze solari, ai bronzetti busti, alle tiare, alle armille dorate che serrano vite, tempie, braccia, agli onici, ai lapislazzuli, agli smalti celesti corrispondono le dimore infernali, le putride li incrinati pilastri, le fratture allarmanti, i sotterranei grondanti, le gomme, i mucchi, i filamenti, i liquami stagnanti, i notturni sentieri, i labirinti angoscianti. Là alla fine del tortuoso degrado, lo scivoloso sentiero lungo cui s'aprono porte, grotte, svolte, nuovi sentieri, trappole inganni, s'odono voci, bisbigli, rimbalzano echi d'ogni sibilo, fiato, squittio, baluginano occhi deserti di fronte, sprazzi, palpiti fiochi, là, all'estremo, contro la parete dell'oscuro meandro è l'anello mutante, il bestiale legame, l'ebbrezza rimossa, il limite infranto e nascosto, l'innesto chimerico, la creatura innocente, il testimone occultato. Una mente perversa e servile ha ideato una prigione assoluta.

Regna il toro a Crosso, la bestia potente che irrompe sull'orlo di un fasto che si sfalda e decade sforza e invade regime di noie e mollezze. Il prezzo di tanto regresso, d'innaturale ritorno ad ere pregresse, sepolte, è il sacrificio barbarico di fanciulle e fanciulli di un Atene civile in scadenze fatali.

Si sa come avvenne il mito nella grande metafora.

Sul mare di Creta naviga la prua raggiante d'azzurro

Potava Teseo e sette coppie di giovani Ionii

(Bacchilide)

Fu accolto l'eroe come figlio di re e al banchetto narrò le sue imprese, innamorò Arianna che lo soccorse col filo al punto mortale e nel ritorno alla vita. Rinsalda così Teseo, col sacrificio della bestia dolente, del mostro innocente, la frattura, lo iato tessuto civile, nella ragione del mondo. La favola, quindi, il romanzo, apre e dipana, nel rito d'uscita, ancora volute, sentieri, sviluppi, narra d'Arianna abbandonata sullo scoglio di Nasso, della fuga di Dedalo e Icaro dal labirinto serrato per le vie del cielo, del precipitare nel mare del figlio imprudente, dell'approdo del sagace architetto a Comico, nel regno del siculo Còcalo.

Si rientra così in un labirinto più tetro e tremendo di quello di Creta, nel palazzo fascinoso e pervaso in cui resta rinchiuso per sempre chi per ventura è nato in Sicilia: vocalico inganno, spirale infinita, abbaglio e stupore, groviglio di sensi, terrore vulcanico e delizia di loto, abbandono e torpore, follia. Ci narra il pittore, Calascibetta con dolore e furore, in ogni scena, sequenza, in ogni snodo della vicenda, che il sotterraneo palazzo, l'occulto viluppo di strade, il buio riflesso, la bestia del recesso obliata, che tutto è riemerso alla luce, s'è fatto palazzo regale, colonnati e scaloni infiniti, odeon ed arene e teatri, s'è fatto esistenza e potere, paesaggi di idillio e di caos, colate di lave vulcaniche e flora opulenta, sinistro rigoglio d'opunzie e labirinti di tronchi, di fibre nodose, di radici pendenti. Nei meriggi d'incandescenza, nel fulgore sospeso, nelle ore dei fauni, vaga per i boschi, le rive del mare, per città e villaggi la bestia biforme, il Minotauro anelante, invoca, si strugge, bramisce. I gialli, i rosa, gli azzurri, i verdi, i rossi squillanti, i marmi, le scaglie, i metalli, le punte oltraggiose, le volute infinite, le estatiche pose, gli abbandoni, le smanie, le fughe delle figure, gli orizzonti di fuoco e i cieli corruschi, l'amaro grottesco, il brutto linguaggio che regna questo modo dipinto è lo specchio fedele della nostra, della deformazione del mondo, del labirinto odierno di stortura, lo cura, perdita di memoria, nesso, ragione, armonia, misura.

C'è offesa e risentimento nei quadri di Antonio Calascibetta, c'è aperta denuncia della colpa di Pasifae e bisogno, desiderio struggente di liberazione, d'uscita dalla nostra prigione, dal labirinto d'angoscia e dolore

 

 

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Una sessualità senza gioia

di Leonardo Sciascia

Antonio Calascibetta dipinge da quindici anni ma solo da tre o quattro ha cominciato a far vedere le sue cose in mostre collettive e personali: è questo già segno di una serietà oggi non comune, e anzi rara. Sembra, oggi, per tanti che dipingono, che il mestiere sia da venire dopo. Prima il successo, da conseguire con mezzi propagandistici e pubblicitari, e poi il mestiere. E magari mai, una volta conseguito il successo, Calascibetta anche perché autodidatta, ha fatto il contrario. Aveva delle cose da dire, in pittura, ed ha cercato prima il mestiere per dirle. E direi che ha tanto mestiere, e ormai connaturato alle cose da dire, che – per esempio l'impiego dei colori acrilici gli è diventato mezzo d'espressione.

I colori acrilici sono una comodità, generalmente. Nel suo caso sono espressivi; tutt'uno, cioè col mondo che rappresenta. Che il mondo, a volerlo chiudere in una formula della corruzione cattolica o, a volerlo particolareggiare della corruzione democristiana. Di uno dei suoi primi quadri, esposto alla mostra del “sacro nell'arte” nell'arcivescovado palermitano, il titolo era Processioni e Processi; e questo si può dire che è il tema, costante fino all'ossessione anche se appare in forme diverse, della sua pittura fino ad ora.

Tema cui è implicito, ad aggiungere imbestiamento ad una classe di potere già sufficientemente imbestiata nella più lata avarizia e nella più lata rapacità quello di una sessualità senza gioia, in sé arrovellata

 

 

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La fame convive con le grandi abbuffate

di Giacomo Baragli

Accade sempre più sovente di leggere che i tempi sono maturi per una svolta: dalla concettuosità filosofica dell'arte comportamentale, all'oggettiva coseità delle opere e della pratica del fare che cominciano a rivendicare spazio ed egemonia negli appuntamenti turistico - termali d' una cultura figurativa bolaffiana, irrigata a pioggia da una mano pubblica spendacciona e maldestra.

Si tratta del riflesso sulle arti figurative d'un processo culturale più ampio: se prima erano i filosofi di provincia a tenere il campo della critica d'arte, l'ultimo grido è ora degli antropologi ed affini. Le gallerie tendono ad esporre documenti da Musèe de l' homme : incerti repertori d' una riscoperta primitiva del fare.

Anche se è evidente che tali forme artistiche esprimono una stringente critica alla civiltà urbana ed un rifiuto della alienante sovrabbondanza della tecnologia contemporanea, sorprende che tale atteggiamento culturale colpevolizzi e scarti il linguaggio della pittura, salvo che per giocare con esso in forme intellettualistiche e tardivamente dissacratorie. Profondamente diverso è il piglio critico che ispira la beffarda e ironica narrazione pittorica di Momò Calascibetta che rappresenta da alcuni anni la commedia umana della grande crisi economica – ma anche e soprattutto culturale e morale – della società contemporanea.

Senza cedimenti e debolezze ma anche con la profonda pietas che si esprime nell'amore con cui personaggi e situazioni vengono descritti e raccontati. L'eccellenza dell'esecuzione pittorica, la controllata perizia delle composizioni maggiori come delle più piccole tavole, non è quì ricordata per altra ragione che questa: sottolineare come, accettando pienamente responsabilità ed oneri della ricca ed articolata eredità del linguaggio della pittura, sia possibile scoprire una nuova concreta, moralità del lavoro artistico Da qualche parte, d'altronde, bisognerà pur cominciare la costruzione del nuovo modello di società: in questa, nostra, ci sono troppi sperperi ed abusi, squilibri ed emarginazioni, violenze contro la legge e le leggi; la fame convive con le grandi abbuffate, la scurrilità col disamore; come ci ricorda l'appassionata denuncia di Momò Calascibetta.

 

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Calascibetta, siciliano, ironico,grottesco

di Raffaele De Grada

Un ciclo di disegni e dipinti dedicati all'amore è quello presentato da Momò Calascibetta a Milano. Un grottesco di atti sessuali: dagli scollacciati accostamenti che ricordano Fragonard, alle antierotiche figurazioni di donne oscene che richiamano Grosz. Calascibetta disegna e dipinge con una bravura fredda e controllata senza indulgere a deformazioni eccessive,. Semmai Calascibetta usa una insistenza nel disegno di stoffe, calze, cuscini e reti intime, ma la sua deformazione ha un fare largo, sinuoso, per niente duro come quello che nel grottesco deriva direttamente da Grosz. Il quadro più grande qui esposto si intitola “ Acque gialle a Cefala Diana “, la sua concezione ci riporta al “ Bagno turco “di Ingres tuffato negli orientalismi kitsch dell'ultimo 800.

Calascibetta è mosso da una cultura critica (che piacque a Leonardo Sciascia) più che dalla voglia di piacere, di provocare un effetto di curiosità che già sarebbe qualcosa con tante “ macchie “ inutili e ripetitive che vediamo intorno.

Nel passato Calascibetta si era fatto notare per dipinti e disegni di carattere socio-politico che furono apprezzati dalla critica qualificata. Anche allora l'immaginario prevaleva sul realismo politico; è logico oggi il passaggio a un tema più disimpegnato come quello dell'amore per il quale Calascibetta manifesta tuttavia più un senso di repulsione che di erotica adesione. Si può anzi intravedere una posizione critica verso il disimpegno tanto che i suoi “ raptus “ sono sempre trattenuti da un'ironia di fondo, quando nel momento dell'aggressione amorosa l'uomo bruto dal volto sconvolto non si può accorgere che un mariolo lo deruba del portafogli dalla tasca dei calzoni.

Una mostra dedicata a un unico tema non suggerisce una definizione generale di un artista. Basta però a significare una nuova e singolare presenza certamente più interessante di tante opere ripetitive e omologate che vediamo intorno

 

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Una cavalcata al chiuso di Villa Palagonia

di Marco Vallora

Ci imbattiamo in una mostra particolare organizzata a Milano nella galleria “Jannone” dal Titolo “Bestiario”. Tra i tanti artisti ci piace soffermarci davanti le opere di Momò Calascibetta, l'artista più sfuggente e meno definibile, e ci imponiamo di tener lontano l'ansia stupida delle matrici dell'influenza, del riferimento comunque a qualcosa di già noto. Eppure, nel suo furore Blaue Reiter di colori vivi e crudi, Calascibetta a qualcosa ci fa pensare, di profondo, che continua a sfuggirci e disorientarci, che ci sommuove degli echi, ma che non si vuole evocare, comunque, per sottrargli originalità. Battaglie taurine, atletismi strappati, erculee tenzoni, che spaccano la crosta della pittura per tornare al disegno. E su tutto, un'espressionistica atmosfera da circo: come nell'allarmante cavalcata, al chiuso di Villa Palagonia, della domatrice franante di ciccia e guépierès, in critico equilibrio, sorpresa a domare col frustino il lemme passo da camera di un rassegnato e ingabbiato coccodrillo: raddoppiato, triplicato, moltiplicato dal rispecchiante soffitto di cristalli.

Come un Grosz allevato a babà, un Maccari trapiantato nella claustrofobia espressionista: e lo rivelano anche le crostate umane dei “Sandwich”, ammassi di grugni, tacchi, guanti, ghigni mafiosi, baffi spioventi, orecchie incarnate, mani a salsiccia e malleabili porcellini, che si levano a pinnacolo, sotto una luce cicatrizzata, da inchiesta da commissariato.

 

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Appunti per una lettura

di Nicolò D'Alessandro

 

Il progetto di una mostra è spesse volte il progetto architettonico di un certo periodo della propria esistenza. Io e gli altri. Il privato sfocia nel sociale. Antonio Calascibetta ( Pittore, Architetto, Marito, Padre, Uomo qualunque ) continua ad organizzare da quattro anni esatti “ promemoria “con gli acrilici. Progetta spassose allusioni. Il proprio destino. Legge acutamente il “ trascurato “, “ l'apparente “. Si diverte, soprattutto, ad aggiungere convulsi momenti figurali al grosso caos che contraddistingue questi sconquassati anni, caricando gli aspetti irrazionali dell'umano indolente e confuso. Il pittore (non altrimenti ) ha chiaramente molto da attingere, accostare, saccheggiando una realtà variabile. Con la passione tipica del siciliano che vuol leggere più chiaro, che vuol capire di più. Dicono che stare gomito a gomito significa amicizia. E se amicizia significasse mafia?

Molti saranno tentati di leggere questi lavori come ad un bel racconto. La prima cosa che viene è di lasciarsi suggestionare solo dalle immagini. Ed il gioco è fatto! Che le subiscano pure. Nuova figurazione? No. Caricatura. Ironia. Scherno. Compiaciuta e dotta lettura dell'individuo-umanità che pesca nel torbido, nei risvolti del sociale marcio. Rivoltante. In cui nessuno può riconoscersi. (O non vuole?). Atteggiamenti umani. Risa convulse, trattenute, ipocrite, consenzienti. Territori fisici. Il sociale subisce il privato. Ed allora l'uomo coincide con le sedie, con le cattedrali, con gli alberi. Le mani esprimono codificati linguaggi.

L'uomo diventa oggetto.

Una descrizione del comico che diventa attenta indagine del particolare. L'esagerazione dei caratteri è la rottura dell'equilibrio che stimola il riso. Che strano umorismo questo dove gli uomini sono oggetti! Questa pittura caricaturale ( per molti versi ) è una strada a senso unico. Tutto conduce all'analisi del potere. Alle sue storture. Alle sue diversificate contraddizioni. I meccanismi psicologici che derivano dall'accostamento “ casuale “ di presenze umane portano al senso del grottesco che alberga in ognuno di noi. Almirante e Moro diventano presenze inquietanti e così le autorità religiose, i servi e i burocrati del potere. Donne ricercatissime, con la puzza al naso per intenderci, denunziano il loro antifemminismo e le loro sovrastrutture. La loro secolare ottusità fatta di gesta, codici e abitudini. Occhialuti cantori e “ marines “ istupiditi dalla coca cola consumata a litri nelle noiosissime pause che stanno tra un momento banale ed un altro ( la guerra per esempio e la costruzione della guerra ), schiavi di una logica ( forzoso senso del dovere ) che giustifica e codifica la violenza, sotto i buffi protagonisti di una folle e assurda parata. In una “ spettacolazione “ di sé come passivi attori del nulla. Siamo anche noi per questa scrittura “ pittorica “ di Calascibetta, che assume con questa prova, a se stesso e agli altri una convincente ricerca di autenticità

 

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